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Halloween è sempre stata qui. L’utilità di festeggiare la paura e altri spaventi

Pubblicato il

Marcello Coppola Consulting

C’è un aspetto rivelatore dello stato di salute delle nostre “radici culturali”: immaginare che una festa “americana” sia di importazione, quando invece è di ritorno. La circolarità culturale è ciò che rende il mondo in continuo mutamento, perciò interessante. Possiamo discutere della trasformazione consumistica e mediatica delle tradizioni, ma non dovremmo mai dimenticare che se certe manifestazioni vanno diffondendosi vuol dire che significano qualcosa a livello sociale, come dicono gli antropologi: “hanno senso”. Un caso che, ogni anno, porta a posizioni contrapposte è quello di Halloween, come si chiama da un po’ di tempo la festa dei morti. Specie sui socialmedia, infatti, è facile imbattersi in numerose critiche a tale “celebrazione”, spesso dipinta come una forma di “colonizzazione” del nostro immaginario collettivo (italiano, meridionale, cristiano, cattolico, mediterraneo…). Ma è davvero così? Sappiamo cos’è questa festa, quali sono le sue origini e trasformazioni? Sadici e satanisti hanno realmente a che vedere con questa ricorrenza? Ma, soprattutto, perché Halloween funziona? Perché ha così successo nella nostra società?

Partendo da quest’ultima domanda, va specificato che Halloween è la commemorazione della paura, non dei morti e, sebbene paura e morte siano strettamente correlate, non sono la stessa cosa: la paura è un sentimento fondamentale del vivere, aiuta a stare attenti, prepara alla fuga da un pericolo, ma se non controllata in maniera adeguata può invece bloccare e risultare fatale. In questo senso, Halloween è una parentesi in cui si lascia che l’oscuro entri nel quotidiano a fini pedagogici, per così dire; si tratta di una finestra temporale in cui i piani dell’umano e dell’ultra-umano si mischiano, creando confusione nell’ordine costituito. Per ristabilire la regolarità cosmologica, le entità oscure – i morti ritornati tra la fine di ottobre e i primi di novembre – devono rientrare nell’aldilà, cosicché l’aldiqua sia nuovamente abitabile dagli umani – dai vivi – durante il resto dell’anno. Tutti i bambini sono attratti dalle storie di mostri, fantasmi e streghe: vogliono provare il brivido di trovarsi al limite, sperimentano se stessi, per cui indossano maschere che danno loro più identità, anche mostruose; amano rincorrersi e urlare fingendo una realtà che poi si risolverà in una fragorosa risata. È il “come se”, un dispositivo culturale altamente educativo: ci si pone nei panni e nella condizione di un altro e, nel caso di creature spaventose, si impara che possono essere sconfitte come, appunto, le paure.

La cultura e le tradizioni sono un fiume carsico, a volte si nascondono in profondità e pensiamo che siano estinte, invece poi riemergono in un punto – dello spazio o della storia – che non immaginavamo, magari seguendo un percorso imprevisto. Il culto dei morti, in uno specifico periodo dell’anno, è comune a molte culture e la versione più attuale, almeno nei Paesi capitalistici avanzati, ovvero Halloween, non è altro che l’ultima trasformazione di una pratica arcaica che, viaggiando attraverso le migrazioni dal Sud Italia e incontrandosi nel Nord America con altre tradizioni – ad esempio quella irlandese – ha dato vita a quel che ora torna in Europa sotto forma di “dolcetto o scherzetto”.

Nell’indimenticabile “Il ponte di San Giacomo” (1982), Lombardi-Satriani e Meligrana documentano innumerevoli varianti del culto dei morti nel Sud Italia. Di seguito cito (dall’edizione del 1996) qualche passo su alcune questioni: (1) perché i morti ritornano, (2) come ci si deve rapportare ai defunti ritornati, (3) perché sono coinvolti i bambini.

 

(1) L’incontro tra i vivi e i morti permette simbolicamente la sospensione di un evento irreversibile quale la perdita e, allo stesso tempo, il riallacciarsi di uno scambio con chi fu: nell’ideologia folklorica del ritorno questa finestra è un modo per permettere e controllare una relazione sociale vivi-morti, in assenza della quale ci sarebbe il rischio del caos e della sovversione dell’ordine costituito (pp. 81-82, 109).

 

(2) «Molto diffusa è in tutti i paesi meridionali la credenza che i morti ritornino nelle loro case nei giorni dedicati alla loro commemorazione collettiva. A Zaccanopoli, […] l’ultimo giorno di ottobre si riempivano di acqua le bottiglie, fino all’orlo, perché si riteneva che la notte passassero i morti, bagnandovi le dita o […] il dito mignolo. L’usanza era diffusa fino a una ventina d’anni fa; ora è ancora conosciuta ma praticata molto raramente. Anche in Lucania “i morti tornano la notte del 2 novembre, e i parenti prepareranno il cibo sul davanzale della finestra, affinché, al loro passaggio processionale a mezzanotte possano cibarsi”. In Campania oggi “il giorno dei morti […] non presenta pratiche di tipo particolare, fatta eccezione, soprattutto nel napoletano, dell’intenso tributo di fiori e di lumini fatto ai morti, e, ugualmente, alle anime purganti. […] In questo giorno i morti possono apparire ai vivi, consigliarli, aiutarli, in cambio di preghiere e di offerte che accorciano la loro permanenza nel purgatorio”» (p. 110).

 

(3) «La festa come luogo dello scambio simbolico si fonda sui morti e sui bambini, figure prossime, e perciò inquietanti, alla fine e all’inizio del tempo storico. […] A Mileto nel giorno dei morti i bambini poveri […] si rivolgono agli adulti chiedendo loro “qualcosa” in nome dei defunti con l’espressione: “Mi date i morti?”. […] Il rifiuto suonerebbe come rifiuto al morto. A Nicotera, fino a qualche anno fa, nel giorno dei morti i bambini andavano per le case, portando una zucca svuotata e lavorata a mo’ di teschio, nel cui interno era accesa una candela. Con questa maschera mortuaria chiedevano: “‘ndi dati i beneditti morti?”, ricevendone in cambio cibi e più raramente soldi» (pp. 150-151).

 

Come ha scritto Emma Louise Backe, Halloween sembra fatto apposta per gli antropologi: questa festa incoraggia a scoprire gli scheletri nell’armadio e ad affrontare gli spettri che perseguono ancora la nostra società. Dai sondaggi in vari Paesi occidentali, le percentuali di coloro che credono nei fantasmi sono alte, come anche quelle di chi dà credito alla stregoneria, alla magia e, più in generale, al soprannaturale. I film horror hanno un po’ ovunque ottimi incassi e, nelle librerie, gli scaffali dedicati all’esoterismo e ad altre pratiche pseudoscientifiche occupano ampi spazi.

Se ci prendessimo il tempo e il coraggio di osservare attraverso lo specchio delle nostre paure, forse riscopriremmo quella cultura del dono e della reciprocità che Andrea Camilleri racconta in un suo ricordo d’infanzia:

 

«Eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto. Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all’alba per andare alla cerca. Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa. Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo. [La mattina dopo], pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. […] Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine» (da “Il giorno che i morti persero la strada di casa”, in “Qua e là per l’Italia”, Alma Edizione, Firenze, 2008).

Giovanni Gugg

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