A lungo il rito è stato relegato ad un preciso ambito del vivere sociale, quello della sfera sacra, in opposizione a quella profana, sostanzialmente considerandolo espressione organica di un modello sociale premoderno. In realtà eventi pubblici extra-sacrali se ne hanno molti, in ogni tipo di società, anche in quella industriale e post-industriale come la nostra: partecipazioni solenni si hanno il 25 aprile o alla finale dei campionati mondiali di calcio, ma atti più banali sono anch’essi inquadrabili come forme rituali, come prendere il caffè al bar o salutare un amico per strada. Tra questi esempi c’è una differenza di grado, più che di essenza, dacché se ne deduce che anche il nostro quotidiano e le relazioni che tessiamo sono spesso cadenzate da riti, da quelli a cui attribuiamo un valore etico-religioso ai “social drama” del tutto scevri di misticismo e sapere esoterico. Da quando gli studiosi hanno compreso che le differenze non sono di qualità, bensì di scala, la fenomenologia che indichiamo come “rito” si è allargata enormemente, fornendo così molti spunti di riflessione sulle pratiche politiche, sul consumismo, sul turismo, sulle culture giovanili. I riti contemporanei, in altre parole, sono punti di osservazione delle dinamiche della nostra epoca.
Dentro questo discorso si innesta la riflessione che, puntualmente, da alcuni anni ci troviamo a fare in questo periodo d’inizio autunno circa “Halloween”. Come abbiamo argomentato già altre volte, per noi italiani – e meridionali – si tratta di una “festa di ritorno”, in quanto la circolarità culturale ha dapprima esportato con l’emigrazione determinate pratiche folkloriche legate al giorno dei defunti, ma, successivamente, con la globalizzazione dell’immaginario influenzato dal modello statunitense, quelle manifestazioni sono rientrate ibridate da varie tradizioni, dalle irlandesi alle messicane. Per quanto interessante, lo studio sulle origini di una festa del genere è un progetto conoscitivo limitato, perché ambisce solo a confermare o meno una supposta autenticità della pratica attraverso l’individuazione di residui e sopravvivenze. Più proficuo, invece, è l’impegno volto alla comprensione del senso di un determinato rito da parte di coloro che lo realizzano. Sappiamo che le pratiche culturali hanno andamenti carsici e che i complessi simbolici hanno durate lunghe, ma la domanda fondamentale è: cosa significa, oggi, mascherarsi ad Halloween, cosa vuol dire “evocare” mostri e fantasmi nella notte dei morti?
Le tradizioni sono in perenne trasformazione, vi attribuiamo continuamente nuovi significati, per cui, in merito ad Halloween, dovremmo porci delle domande su cosa abbia, attualmente, valenza antistituzionale, quale sia il carattere performativo dell’esperienza rituale collettiva, nonché del gioco e dell’allusione; quale sia l’occasione per esprimere liberamente il “furore represso” di cui parlava Ernesto de Martino o la circostanza per esorcizzare le paure e la violenza di una società ad alto tasso di concorrenza e stress. Per i bambini in età scolare il brivido di trovarsi al limite è una forma di crescita: il gioco del “come se” è un modo per sperimentare se stessi; indossano maschere che danno loro più identità, anche mostruose, e amano rincorrersi e urlare fingendo una realtà che poi si risolverà in una fragorosa risata. Ma quali significati vi attribuiscono gli adolescenti? E, ancora, che senso ha per gli adulti? Ecco, dunque, che una festa come Halloween (una sorta di “commemorazione della paura”, più che dei morti) è il modo efficace, a giudicare dal crescente successo di cui gode anno dopo anno, con cui lasciamo che l’oscuro entri nel nostro quotidiano per lo spazio di una parentesi; una finestra temporale in cui una sorta di antagonismo allegorico mischia e confonde i piani dell’umano e dell’ultra-umano, cosicché poi si possa ristabilire l’ordine e la regolarità cosmologica per il resto dell’anno.
Come ha osservato Pietro Clemente, “le tradizioni si compiono nel futuro”, cioè il cambiamento è il flusso incessante che trasforma e riattiva forme culturali che pensavamo estinte e storie che ritenevamo concluse. Contrariamente a quel che si crede, i riti e le tradizioni si reinventano di continuo, per cui, più degli archetipi che eventualmente vi possiamo scorgere, ciò che rende prezioso quest’ambito del sociale sono gli inediti sincretismi e le imprevedibili interpretazioni che quotidianamente ne facciamo. Perché è attraverso l’inarrestabile costruzione simbolica che si elabora un senso di appartenenza collettivo.