domenica, Maggio 4, 2025
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Ciro Esposito, l’attore, l’artista e l’uomo

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Marcello Coppola Consulting

 

Ho incontrato a Sorrento Ciro Esposito, oggi trentasettenne, ma sempre con l’indimenticabile faccia di scugnizzo che, a soli otto anni, lo rese famoso quando interpretò il piccolo bullo e “camorristello” Raffaele Aiello in “Io speriamo che me la cavo”, il film cult del 1992 tratto da Lina Wertmüller dall’omonimo libro di Marcello D’Orta, con uno straordinario Paolo Villaggio nei panni del maestro. Ciro è stato a Sorrento con una sua suggestiva mostra di pittura e scultura, “Oro Nero”, sotto la direzione artistica di Marco Palmieri, inserita nella sezione “vista” del Festival delle emozioni, attraverso il percorso dei cinque sensi in Villa Fiorentino, organizzata dal dottor Tullio Tartaglia in concomitanza col lancio del suo libro “Amore Sorrento”. Opere sorprendenti, quelle di Ciro, capaci di stimolare una riflessione critica sull’onda di emozioni potenti sulla complessità di un Continente ricco di bellezza e contraddizioni.

Ciro, tu sei figlio d’arte, vero? Quanto ti ha influenzato la passione per il teatro dei tuoi genitori?

Moltissimo, nel senso che ho respirato aria di teatro sin dalle fasce, e mi sono appassionato seguendo le rappresentazioni teatrali della compagnia amatoriale dei miei genitori: si può dire che ho imparato a parlare ascoltando le battute dei copioni di Scarpetta, Eduardo, Viviani! E ringrazio i miei genitori di avermi lasciato seguire la mia passione, senza né ostacolarmi né forzarmi.

A che età il debutto vero e proprio?

A sei anni feci Peppiniello in Miseria e Nobiltà, un’emozione, varcare il palcoscenico, che ricordo ancora, e provo ogni volta, ora come allora. La mia particolarità come attore è che non vengo dalla scuola, ho imparato a recitare vedendo spettacoli su spettacoli e cimentandomi da autodidatta.

Come sei arrivato sul grande schermo con il film “Io speriamo che me la cavo”?

In quarta elementare, l’insegnante lesse in classe l’articolo uscito su Il Mattino che cercavano bambini per il film. Al provino eravamo 4000, poi ne hanno selezionati 300, poi 80, infine i 14 protagonisti. Napoli in quel periodo fu girata come un calzino dalla produzione per trovare i bambini con le facce giuste per il film.

Luca Scarlini ha pubblicato un libro, “La sindrome di Michael Jackson. Bambini, prodigio, traumi”, in cui postula che la vita personale così tragica e disastrosa del grandissimo divo trovi le sue radici nell’infanzia di bambino prodigio: una carriera di successo da bambino può scardinare la stabilità e l’equilibrio emotivo così necessari per la una sana crescita psichica. Tu come hai fatto a mantenere il tuo equilibrio dopo la notorietà e la fama che ti hanno investito da bambino?

La mia fortuna è stato mantenere sempre i piedi per terra, considerando il lavoro dell’attore un mestiere come un altro, da svolgere con lo stesso impegno, serietà e dedizione necessari per svolgere qualunque altro lavoro. Non ho mai puntato alla celebrità o alla facile fama. Chiedo solo di poter seguire la mia passione, che è recitare. Non saprei fare altro, per me è una pura vocazione. In questa società dell’apparire, dei selfie selvaggi e dei like a tutti i costi, la mia sfida è la normalità, il fare le stesse cose, avere gli stessi amici, seguire lo stesso stile di vita che se non fossi famoso.

Molti anche bravissimi baby-attori, che hanno avuto una grande notorietà al momento, poi sono spariti, pensiamo ad esempio a Andrea Balestri, indimenticabile protagonista dello sceneggiato televisivo Le avventure di Pinocchio di Luigi Comencini, o a Totò Cascio, interprete in Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore del ruolo di Salvatore giovane, che gli portò il successo internazionale e la conquista del British Academy of Film and Television Arts. Invece, la tua carriera, dopo Io speriamo che me la cavo, non si è mai fermata: tanto cinema, teatro, in televisione numerose fiction e serie di successo, come Amico mio, Uno di noi, Un prete tra noi, Lui e lei, Casa famiglia, La squadra, Orgoglio, Il Grande Torino, L’inchiesta, Un posto al sole, La nuova squadra, Le ali, Mannaggia alla miseria…Qual è stata la tua arma vincente?

Sicuramente le occasioni propizie, unite alla mia tipologia di viso molto caratteristica che “funziona”, e alla mia volontà di spaziare, con curiosità e impegno, e anche umiltà, in tutti i campi.

In cosa sei impegnato attualmente?

Il 4 ottobre uscirà in tutte le sale il mio film “Un nemico che ti vuole bene” di Denis Rabaglia con Diego Abatantuono, mentre dal 4 al 7 ottobre torno in teatro al Petrolini a Roma con la commedia “Sotto lo stesso tetto” accanto a Salvatore Catanese e Ivan Boragine, che presto porteremo anche a Napoli. Presto riprenderò anche lo spettacolo “Siamo tutti Felice” di e con Salvatore Gisonna e con Fabio Balsamo di The Jackal. Inoltre ultimamente mi sto sempre più muovendo nel senso dell’autorato di testi e spettacoli miei.

Come nasce il progetto della mostra “Oro Nero” a Sorrento con la direzione artistica di Marco Palmieri?

Mentre lavoravamo assieme a tetro, parlai a Marco della mia passione per la pittura e la scultura, lui mi chiese di vedere i miei lavori e ne rimase entusiasta, per cui mi ha proposto questa mostra. Si tratta di un percorso figurativo di quadri e sculture attraverso volti e trame africane, dove ogni pezzo ha una forte connotazione di denuncia e sensibilizzazione sui problemi di un Continente unico ma profondamente sfruttato e maltrattato. Scoprii l’Africa bambino, nel 1994, quando recitai nel film documentario Sarah Sarà, da allora mi è entrata nel cuore in modo “devastante”.

I nostri complimenti a questo giovane artista napoletano, che i molteplici talenti uniti ad innata umiltà rendono un vero grande.

Carlo Alfaro

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