Il vino non è una passione, è una deriva continua. Peppe Reale lo ha sperimentato sulla sua pelle, lasciandosi trasportare dai lidi del lavoro impiegatizio ad una nuova dimensione: l’impresa. Dopo il praticantato da consulente del lavoro, ha iniziato ad occuparsi di gestione del personale in Aprea Mare. La crisi dell’azienda, la cassa integrazione e la mobilità lo hanno spinto a guardare altrove. Così, si è ritrovato a frequentare un corso Ais a Torre del Greco. Da lì è partita la sua storia di imprenditore.
Peppe, cosa ti ha spinto a riconvertirti in questo settore?
Il vino mi ha sempre affascinato. Quando ho iniziato a studiarlo, è diventato uno scopo di vita. Sono entrato in un meccanismo che mi ha portato a diventare sommelier e degustatore. Ero coinvolto in eventi, fiere, banchi degustazioni. In quella fase ho capito che non avrei potuto più rinunciare a quella che sento come una vocazione. Da qui l’idea di Fuoro 51, enoteca e vinerie con stuzzicherie. Siamo nel 2015. Io sono entusiasta e ai clienti il nostro stile piace.
Cosa intendi per “stile”?
Mi riferisco al mio modo di intendere il vino, non tanto come prodotto, ma come esperienza. È per questo che con il cliente ho sempre un approccio informale. La degustazione non è uguale per tutti, è introspettiva, si compone di reminiscenze. Si può sorseggiare un vino prezioso e non apprezzarlo perché non risveglia emozioni, o perché l’umore non consente di gustarlo al meglio; d’altro canto un semplice Gragnano può essere consumato in comitiva e realizzare un momento esaltante. L’approccio con il vino è esperienziale e deve nascere dal basso.
In che senso?
Nel senso che anche chi si professa inesperto e inadeguato, può bere un calice e trovarci dentro parte del suo vissuto. Io mi sento un “comunicatore” del vino e mi piace ripetere il messaggio della “democratizzazione” dell’esperienza in enoteca. Ovviamente, non mi riferisco ad un aspetto economico, quanto alla capacità di vivere la degustazione.
Quando ti definisci “comunicatore” del vino, ti riferisci al tuo ruolo di insegnante nei corsi organizzati dal comune di Sorrento?
A quelli, ma non solo. A me piace parlare fi vino, soprattutto con i clienti. Quando loro mi chiedono un “vino buono”, io dico loro che il vino buono é quello che loro comprerebbero. Da lì parte l’interrogatori: li sommergo di domande. Preferisci un vino morbido o minerale? Cosa bevi di solito? Che gusti hai? Solo così posso indirizzarli ad una scelta che sia soddisfacente.
Il tuo approccio è cambiato nel tempo?
No. Però Fuoro 51 ha iniziato a starmi stretto, il lavoro lì era fine a se stesso e perseguiva per lo più scopi commerciali. Ho sentito il desiderio di evolvermi e così ho lanciato il cuore oltre l’ostacolo e ho inaugurato Decanter.
Cosa ha di diverso da Fuoro 51? Innanzitutto gli spazi. Poi, l’offerta gastronomica. Ho dato il nome di Decanter perché è facilmente intellegibile. Per specificare ulteriormente, ho scritto “enoteca con cucina”. Dunque, non siamo un ristorante e l’offerta non è quella classica, ma offriamo sfizi, taglieri e brace. Il vino rimane l’ispiratore principale.
Quante etichette hai?
- Vanno dai vini che io definisco convenzionali, come quelli sottoposti a stabilizzazioni e filtraggi e che rimangono sempre uguali a loro stessi, a quelli biologici, che hanno determinati parametri da osservare, a quel biodinamici, dove non è intervenuto nessuna attività chimica di sintesi né in vigna né in cantina, o a quelli vegani. La richiesta è sempre più varia e anche a me piace spaziare.
Lo hai un vino preferito? Direi che ho un’uva preferita: il nebbiolo. Ha un colore scarico e sembra indifesa, ma è incredibilmente potente. Non è ruffiana come il Sangiovese, né impressionante come il primitivo. È elegante, la più elegante.
E mentre Peppe parla, sento che quella deriva non lo trascina: gli è dentro. È ha il sapore del Barolo, del Riesling, del Traminer e di tutta quella vita che scorre nei calici…