Il fenomeno delle baby gang, di cui abbiamo spesso sentito parlare in riferimento ad alcune zone dell’America, sembra avere negli ultimi anni travalicato l’Oceano: sempre più di frequente i notiziari nazionali e locali riportano fatti di cronaca aventi quale trama aggressioni da parte di minori a danno di malcapitati, molto spesso assolutamente gratuite e scatenate da motivi apparentemente futili come una parola o uno sguardo di troppo. Non tutti i fenomeni di delinquenza giovanile sono ascrivibili a tale fenomeno: nello specifico, si parla di baby gang per fare riferimento a gruppi con una struttura specifica, di tipo verticale poiché guidata da un leader e con proprie rigide norme di ingresso nel gruppo e di mantenimento dei ruoli. Proprio la maggiore organizzazione delle baby gang le differenzia dal fenomeno del bullismo, anch’esso di gruppo ma tipico del contesto scolastico e in cui la vittima è solitamente una persona percepita come debole e presa di mira. Chi entra a far parte delle baby gang? Solitamente ragazzini che faticano a regolare le proprie emozioni, la rabbia in particolare, che trova così espressione diretta in azioni impulsive, violente. In questi ragazzi la capacità di attenersi alle regole sociali è venuta meno, come anche la possibilità di darsi dei limiti. La dimensione gruppale favorisce l’emulazione dei comportamenti violenti allo scopo di sentirsi suo degno membro e, in esso, la responsabilità per le azioni messe in atto si spalma tra tutti i suoi componenti, favorendo la minimizzazione della gravità dei gesti compiuti. Come possiamo rappresentarci gli autori di tali condotte devianti? Cattivi ragazzi o giovani fragili che mancano degli strumenti necessari per imboccare la strada giusta? Certo la prima risposta sarebbe più facile da sopportare perché toglierebbe al mondo degli adulti il grosso delle responsabilità. Invece, andando a fondo, dietro ai comportamenti inaccettabili messi in atto da questi ragazzi, si raccolgono spesso storie segnate da un fallimento educativo: ad un estremo, storie di trascuratezza, famiglie multiproblematiche o connotate da autoritarismo eccessivo, in cui i ragazzi non hanno potuto trovare quel contenimento affettivo necessario per sviluppare adeguatamente la propria identità; sul versante opposto, storie intrise dall’assenza di regole, da un atteggiamento genitoriale iperprotettivo che non favorisce lo sviluppo nel ragazzo della capacità di tollerare la frustrazione e i limiti che la realtà inevitabilmente pone. Non sempre la scuola riesce a sopperire a tali mancanze, anzi, talvolta le aggrava portando avanti un modo di fare totalmente imperniato sulla didattica e che non si allinea alle esigenze delle nuove generazioni, al loro bisogno di esprimersi, di sperimentarsi e di imparare a stare con gli altri. In questo vuoto educativo la gang può rispondere al bisogno di sentirsi parte di un gruppo coeso, con regole e ruoli chiari e definiti, sotto la guida di un leader sostitutivo di un riferimento adulto autorevole mancante. In un contesto in cui, complice la sempre maggiore esposizione a immagini e modelli aggressivi, si è abbassata la soglia di ciò che si percepisce come illecito, la violenza può diventare più facilmente il canale attraverso cui sentire di avere valore e soddisfare un bisogno di appartenenza. Tocca a noi adulti interrogarci su cosa sta accadendo ai nostri ragazzi. Non è una “caccia al colpevole”, parliamo piuttosto di una responsabilità che va condivisa tra le varie agenzie educative di riferimento e non scaricata da una parte o dall’altra. Famiglia, Scuola, Istituzioni, Enti Sociali, Professionisti della salute, devono fare gioco di squadra per arrestare tale deriva e soprattutto mettere in atto azioni preventive, di promozione del benessere. Come recita un proverbio africano, per educare un bambino ci vuole un intero villaggio.
Dott.ssa Margherita Di Maio, psicologa ad approccio umanistico e bioenergetico. Per info 331 7669068
Dott.ssa Anna Romano, psicologa-psicoterapeuta dell’età evolutiva. Per info 349 6538043