domenica, Luglio 6, 2025
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La giustizia tra Platone e Netanyahu

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Marcello Coppola Consulting

Nelle ultime settimane si è parlato tanto del conflitto armato tra lo Stato di Israele e quello palestinese. Ad oggi la situazione sembra aver raggiunto una momentanea e debole stasi. Per poter comprendere le dinamiche attuali che regolano il rapporto tra questi due stati bisogna ricordare che lo Stato di Palestina è tuttora privo di un’organizzazione statuale tipica, senza un esercito regolare, e rimane sotto occupazione militare di Israele in seguito alla “guerra dei sei giorni” del 1967.

Lo Stato di Palestina dovrebbe esercitare de jure sovranità su territori palestinesi (la Cisgiordania, Gerusalemme Est e la Striscia di Gaza), che confinano con la Giordania, con Israele e con l’Egitto, e la sovranità del popolo palestinese su queste aree territoriali è inoltre riconosciuta dall’ONU. Gerusalemme Est però fu, sempre nel 1967, annessa dallo Stato di Israele al suo territorio e quindi alla sua giurisdizione e de facto Israele (e molti altri paesi) non riconoscono l’indipendenza della Palestina. La situazione attuale, quindi, risente di una debole definizione dei confini dello stato palestinese e soprattutto della volontà di Israele di annichilire la comunità dei palestinesi, la cui condizione è ancor di più svantaggiata a causa della superiorità militare e tecnologica dello Stato di Israele.

Hanno fatto il giro del web le terribili immagini dei civili vessati dalla piaga della guerra. Data questa drammatica situazione, possiamo domandarci se sia meglio commettere o subire un’ingiustizia. Socrate, il padre della filosofia occidentale, il quale visse nel secolo V a.C., nel dialogo scritto dal suo allievo Platone intitolato “Gorgia” (Gorgia è il nome del più grande retore dell’antichità ed il tema di partenza di questo dialogo è infatti l’arte retorica), afferma che è meglio subire piuttosto che fare un’ingiustizia.

Il filosofo ateniese argomenta la sua tesi, in primo luogo, domandando al suo interlocutore di nome Polo se sia più brutto fare il male o subirlo; la risposta di Polo permette a Socrate di promuovere la sua tesi, sulla quale inizialmente Polo non conveniva, e cioè che le cose giuste sono belle e che le cose sono belle in relazione alla loro utilità, ossia guardando a ciò a cui servono, oppure per il piacere che suscitano in quelli che le guardano. Le cose brutte, invece, sono tali in quanto sono dannose o spiacevoli. Attraverso l’identificazione, operata da Socrate, del bello e del giusto (bello=giusto) e attraverso una definizione quasi scientifica della categoria del bello (bello=utile e/o piacevole) il filosofo ateniese può confutare Polo che all’inizio del dialogo affermava che fare un’ingiustizia è meglio che riceverla.

In altri termini, dunque, per Socrate le cose giuste sono belle e le cose belle sono anche buone, perché utili. L’ingiustizia è definita da lui come il peggiore dei mali, ed infatti, colui che commette un reato, deve andare dal giudice come si va dal medico, perché per guarire dalla terribile malattia dell’ingiustizia bisogna essere puniti. La pena ha quindi un valore positivo in quanto guarisce l’anima corrotta dall’ingiustizia. Ancora una volta la prospettiva filosofica proposta da Socrate sembra difficile, se non impossibile, da accettare e promuovere. La sua morale è lontana non solo da quella del popolo odierna ma anche dalla morale dominante nella sua epoca. A testimoniare ciò sono il tono canzonatorio e sorpreso dei suoi interlocutori.

Forse, se il primo ministro israeliano Netanyahu avesse letto il “Gorgia” di Platone, non avrebbe ordinato lo sfratto di famiglie palestinesi dal quartiere di Gerusalemme Est (che dovrebbe essere de jure un territorio facente parte della giurisdizione palestinese secondo l’ONU) Sheikh Jarrah; oppure l’altra ipotesi è questa: Netanyahu avrà anche letto quest’opera ma non si sarà lasciato convincere dalle argute argomentazioni del nostro amico Socrate; forse avrà cominciato a deriderlo dopo aver letto la sua tesi.

Ma questa reazione, comunque plausibile, non dovrebbe mai precedere il nostro tentativo di comprendere le ragioni profonde del filosofo ateniese, il quale considerava l’ingiustizia un male che affliggeva l’interiorità. Magari chi commette un’iniquità riuscirà sempre a scamparsela, esteriormente riuscirà ad ammantare le sue abiette strategie con il suo carisma; ma sarà in grado, quando è solo, di confrontarsi con la sua anima inquinata dal male?

 

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